Riflessioni sulla crisi demografica


1.

La crisi demografica, che affligge ormai da qualche anno tutti i paesi europei, si sta configurando in Italia come particolarmente drammatica: il numero dei figli per donna nel 2001 ha raggiunto quota 1,25 (contro l'1,26 della Spagna, l'1,42 della Germania, l'1,63 della Gran Bretagna, l'1,9 della Francia).Esso era intorno al 2,6 quarant'anni fa. La curva del decremento è stata ripida dalla metà degli anni '60 al 1978, ripidissima dal '78 all''84, lenta e graduale da allora ad oggi. Se si tiene conto che il tasso di fecondità per mantenere stabile la popolazione in Italia è valutato intorno al 2,1, non si stenta a capire quali drammatiche previsioni possano essere formulate a partire dal trend in corso: la contrazione demografica e l'invecchiamento progressivo della popolazione. La contrazione demografica, in sé e per sé, può solo turbare i nazionalisti (tendenzialmente razzisti), che associano ad essa una sempre più massiccia immigrazione e un "imbastardimento" della popolazione italiana. L'invecchiamento, invece, crea problemi sociali che, in prospettiva, appaiono insolubili. Come farà una base produttiva destinata a ridursi progressivamente a mantenere una quota crescente d'anziani pensionati?

L'interpretazione del fenomeno non è controversa. Tutti concordano sul fatto che esso riconosce molteplici fattori, remoti e recenti: l'inurbamento, che ha determinato un superamento della cultura contadina (per la quale i figli erano piuttosto braccia da lavoro che non bocche da sfamare); il passaggio dalla pratica della procreazione casuale a quella consapevole, che implica anche una progettualità riferita al futuro dei figli; la nuclearizzazione della famiglia, che rende concretamente e psicologicamente oneroso l'allevamento (non potendo più la coppia genitoriale contare sulla solidarietà parentale, di quartiere, di paese); la necessità per la donna sposata di contribuire al reddito familiare con un'attività lavorativa; i ritmi di vita urbani molto stressanti; il costo economico dell'allevamento e del mantenimento dei figli (che ormai in misura superiore al 20% sul bilancio familiare); la paura legata alla situazione socioeconomica contemporanea, che non consente di operare previsioni ottimistiche sull'inserimento sociale dei figli; ecc.

Il peso di questi fattori, tutti importanti, non è valutato allo stesso modo dagli "esperti" (storici, sociologi, psicologi, educatori, politici).Non c'è dubbio pero che, nel loro insieme, tali fattori permettono di spiegare il calo demografico, ma non consentono d'intravedere facili soluzioni. Che occorra a riguardo un intervento incisivo e a lungo termine dello Stato è fuori di dubbio. Se ciò che è stato fatto finora, nonostante il clamore propagandistico di alcune iniziative, si può ritenere poco più di un palliativo, atto appena a rallentare il decremento demografico, fare di più richiederebbe cambiamenti sociali e culturali d'ordine strutturale di grande portata: in breve, una rivoluzione che nessuno osa prendere in considerazione. Ci si può almeno chiedere, però, di che genere di rivoluzione si tratterebbe.

2.

In più di uno dei miei scritti, ho fatto cenno al paradosso per cui la società industriale, che razionalizza la produzione di ogni bene, trascura di considerare come produttivo il processo di formazione degli uomini, che è decisivo al fine di assicurare la riproduzione sociale. E' evidente che l'uomo non è una merce, ma se, com'è giusto, si estende la nozione di bene a tutto ciò che è utile ma non è prodotto direttamente dalla natura, l'uomo rientra a pieno titolo in questa categoria. In quanto essere naturale, che nasce dal ventre della madre, ogni uomo è una "materia prima" alla quale occorre applicare delle "tecniche" perché venga fuori un prodotto finito.

In un brano suggestivo, che implica l'intuizione della produzione antropologica, Rousseau afferma che la società deve decidersi a costruire un uomo o un cittadino poiché le due cose insieme non sono possibili. E' evidente ch'egli intendeva per cittadino un individuo che si conforma alle regole del buon vivere civile, agli ordinamenti sociali e alle leggi vigenti, e per uomo un soggetto autoconsapevole che, in quanto libero, vive operando delle scelte le quali non sempre sono consensuali.

L'opposizione è forse troppo netta. Di fatto, sulla carta, la produzione antropologica non può non avere che entrambi gli obbiettivi, posto che il secondo sia ritenuto comunque più importante del primo. Quali sono però i mezzi, quali le tecniche in virtù delle quali questi obbiettivi possono essere perseguiti? Con ciò entriamo nel cuore del problema.

La produzione antropologica non si realizza solo, come sostengono gli psicologi, sulla base di un buon rapporto affettivo tra genitori e figli, né solo, come sostengono i pedagogisti, in virtù di una buona educazione, né, infine, come sostengono i sociologi, sulla base di una programmazione sociale che preveda l'investimento di rilevanti risorse economiche (sussidi alle famiglie, assistenza sanitaria, strutture asilari e scolari, ecc.). In realtà essa comporta la necessità di investire contemporaneamente risorse affettive, economiche e culturali.

Come ogni processo produttivo, anche la produzione antropologica risponde alla legge economica per cui, non essendo le risorse infinite, il loro investimento nella produzione di un bene, richiede che esse siano stornate da altri possibili utilizzi. Consideriamo più da vicino questo problema.

Le risorse affettive non si riducono all'intensità dei sentimenti che i genitori nutrono nei confronti dei figli. Esse postulano un regime di vita che consenta di mantenere verso i figli una disponibilità affettiva e il tempo necessario per coltivare i rapporti. Se si prescinde dal mito del naturale istinto materno e paterno, non ci vuole molto a capire che l'investimento affettivo nell'allevamento e nell'educazione dei figli, comporta, almeno nei primi anni, un disimpegno relativo sul fronte degli altri doveri sociali. Ora, nella nostra società, non solo questo disimpegno, nella misura in cui sarebbe necessario, non è previsto dalla legge. C'è da considerare, anzi, che la ristrutturazione del sistema economico all'insegna del liberismo, ha determinato, a livello privato e in misura crescente a livello pubblico (per via dell'aziendalizzazione), un aumento delle richieste di prestazioni che vengono avanzate nei confronti dei dipendenti. I privati in particolare ormai, data la crisi dell'occupazione, non comprano la forza-lavoro, bensì la vita delle persone. Questo determina un effetto di svuotamento energetico che è particolarmente drammatico a carico delle donne, sulle quali continua a ricadere anche l'incombenza dell'accudimento della casa.

Il problema delle risorse economiche è solo apparentemente meno complesso. I conti sono facili da fare. Se un figlio incide, come attestano le statistiche, nella misura del venti per cento sul bilancio familiare (percentuale destinata a salire via via che il figlio cresce e ad impennarsi dall'adolescenza in poi), ciò significa che una famiglia media monoreddito, in conseguenza della nascita di un figlio, scivola verso la soglia della povertà assoluta, mentre una famiglia media con due redditi (tra i 4 e i 5 milioni ogni mese), scivola verso la soglia della povertà relativa. Questo significa che, per la maggioranza delle coppie, mettere al mondo un figlio significa accettare, nell'immediato e in prospettiva, una modificazione abbastanza netta del tenore di vita.

L'incentivo che funzionava in passato, legato alla previsione di una crescita progressiva del reddito, si sta inattivando per due motivi. Primo, perché la crisi economica in atto fa incombere lo spettro della perdita di lavoro piuttosto che di un incremento del reddito familiare. Di fatto, in questi anni è accaduto più volte che una coppia di lavoratori, dopo avere messo al mondo un figlio, si è trovata con un reddito dimezzato. Il secondo motivo è vincolato alla consapevolezza che le esigenze dei figli crescono ormai in maniera esponenziale, possono facilmente azzerare la crescita del reddito e prolungarsi sino a 25-30 anni.

Perché i figli costino tanto non è un mistero. Nei primi anni, incide di sicuro il "bisogno" dei genitori di assicurare loro un benessere spesso superiore a quello di cui essi godono. Per gli occhi della gente, in riferimento all'abbigliamento e ai giocattoli; per un'ansia incontenibile, in riferimento alle cure mediche. La pratica di sottoporre il figlio ad un controllo pediatrico almeno mensile, del tutto inutile e che rientra nell'ambito della medicalizzazione della salute, è uno degli indici elettivi di quell'ansia.

A partire dall'età di cinque-sei anni, i figli, vittime della pubblicità, entrano a pieno titolo nella categoria dei consumatori esigenti e irragionevoli. Rivolta ad esseri che possono essere facilmente suggestionati dagli stimoli pubblicitari, ma non hanno alcuna consapevolezza dei vincoli di bilancio familare, la pubblicità è proditoria, e andrebbe semplicemente vietata. Nessuno, a partire dal Presidente del Consiglio, le cui reti televisive campano su di essa, è in grado di proporre un rimedio del genere.

Dall'adolescenza in poi, più ancora della pubblicità, vengono ad incidere sul consumo dei figli i modelli sociali diffusi tra i coetanei. Se già i grandi hanno la tendenza ad indebitarsi pur di non apparire, nel loro tenore di vita, inferiori agli altri, gli adolescenti vivono nell'incubo dell'inferiorità sociale. Essi la drammatizzano al punto di pretendere e di costringere i genitori ad assicurare loro un tasso di consumo nettamente superiore al reddito familiare.

Questi ultimi aspetti, che incidono a livello economico, sono già di ordine culturale. Il problema delle risorse culturali è, in effetti, il più complesso.Volendolo semplificare, si può affermare che, mentre in passato, trasmettere ai figli un quadro di valori normativi atti a farli diventare buoni cittadini poteva avvalersi di un patrimonio tradizionale e per alcuni aspetti mediocre, ma di sicuro stabile e coerente, oggi le cose si sono profondamente modificate. La confluenza, propria del passato, tra valori cristiani e valori piccolo-borghesi (laboriosità, onestà, rispetto degli altri, ecc.), è venuta meno in nome del fatto che il sistema capitalistico sta spingendo l'acceleratore sulla competitività e sul successo ad ogni costo. Il buon cittadino oggi rispetta a fatica il quadro normativo delle leggi, ma, per sopravvivere, deve essere dotato di quel tanto di aggressività "positiva" che gli permette di comportarsi all'occorrenza in maniera amorale e asociale.

Quest'anomia si riflette nel fatto che le giovani coppie, che nulla sanno delle trasformazioni avvenute a livello di mentalità, si pongono in rapporto all'assunzione di un ruolo genitoriale molti dubbi sulle loro competenze. Lo slogan per cui fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo trova in ciò la sua ragione d'essere. Di fatto la richiesta di cittadini da parte del sistema sociale è divenuta schizofrenica.

Ancora più complesso appare il problema se, al di là della costruzione del cittadino, si assegna alla produzione antropologica la finalità di formare un uomo.Ciò non significa solo favorire uno sviluppo che dia luogo alla realizzazione della vocazione ad essere personale: per esempio, lasciare che i soggetti introversi maturino secondo le loro linee e i loro tempi di sviluppo che poco hanno a che vedere con il modello dominante a livello pedagogico e sociale di tipo estroverso. Formare un uomo significa necessariamente dotarlo di una coscienza critica che lo ponga in grado di difendersi dal viluppo di alienazioni che sono proprie della nostra cultura.

Questo però non implica solo, da parte dei genitori, una disponibilità di tempo elevata da investire nell'educazione dei figli. Posto che tale disponibilità si dia, e che il genitore abbia egli stesso una coscienza critica, si tratta d'ingaggiare una vera e propria lotta contro corrente: contro la corrente dei luoghi comuni, delle mode, dei falsi valori, ecc. Un impegno di immane fatica, i cui esiti, date le pressioni sociali, sono sempre incerti.

3.

Posto in questi termini, il problema della crisi demografica appare in tutta la sua complessità.Per risolverlo, occorrerebbe una rivoluzione economica, sociale e culturale di vasta portata che ponesse la produzione dell'uomo al vertice dei processi di riproduzione della società. Una rivoluzione del genere appartiene, per ora, al libro dei sogni. La conseguenza di questo è che le soluzioni che vengono proposte sono pannicelli caldi. La Chiesa insiste sul dovere di procreare come atto di gratitudine nei confronti del Dio il cui amore si è espresso elettivamente nella creazione degli uomini.Essa di fatto teme la contrazione della comunità dei cristiani (almeno battezzati) in rapporto alla crescente espansione dell'Islam, che, in prospettiva, appare un enorme problema.Lo Stato si limita a fare incombere sui cittadini lo spettro di una riforma del sistema pensionistico che dovrebbe promuovere l'aumento demografico in virtù dell'aspettativa dei genitori anziani di poter contare almeno sull'aiuto dei figli.

Per ora sembra che i soggetti in età procreativa siano scarsamente sensibili sia alle preoccupazioni della Chiesa sia a quelle dello Stato: Per essere più precisi: sembra che siano avviluppati da un autentico terrore procreativo.

Maggio 2003